
Le relazioni Cina-Africa in rassegna
“La Cina ha fatto questo”, “i cinesi hanno fatto quello”. C’è un’essenzializzazione della Cina e degli attori cinesi che ostacola la nostra comprensione delle relazioni Cina-Africa – sia che si tratti di elogiarle o demonizzarle – in quanto raggruppa una molteplicità di approcci, così come di attori, in una strategia fantasiosa. Da qui la necessità di usare il plurale per parlare di queste presenze cinesi in Africa.
Operatori cinesi in Africa
Per cominciare, ci sono attori istituzionali che possono scontrarsi all’interno delle ambasciate stesse. Ci sono divergenze tra i funzionari del Ministero degli Affari Esteri, che subordinano il commerciale al politico, e quelli del Ministero del Commercio che, al contrario, subordinano il politico al commerciale. Questo disaccordo è stato particolarmente sensibile dopo la riforma istituzionale del 2003 che, di fatto, ha concesso una certa preminenza al Ministero del Commercio rispetto a quello degli Affari Esteri. Questa rivalità tra il commerciale e il politico si riflette anche nel rapporto tra i funzionari del Ministero degli Affari Esteri e la ExIm Bank of China, che fa capo al Ministero delle Finanze: il primo incoraggia la concessione di prestiti a tassi agevolati, mentre la seconda preferisce concedere prestiti a tassi commerciali. Queste frizioni in Africa possono essere espresse attraverso il confronto politico – e quindi strategie opposte – a livello di governo centrale in Cina. Queste controversie istituzionali possono diventare ancora più importanti, dal momento che la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e la Riforma dipende da informazioni frammentarie provenienti da attori istituzionali, o anche dalle informazioni inevitabilmente distorte fornite dalle aziende beneficiarie.
Le aziende cinesi e le loro strategie, tanto diverse quanto variegate, dipendono tanto dal loro status quanto dalla loro ricerca di mercati, senza che possiamo ridurle all’osservazione di un grande piano, ad eccezione di un certo desiderio di internazionalizzazione (zhouchuqu) incoraggiato dal Governo cinese. Va notato che questa internazionalizzazione non rende automaticamente queste aziende multinazionali o globalizzate, nella misura in cui il fatturato che realizzano all’estero rimane marginale nel loro fatturato totale. Tra le grandi imprese statali sotto la diretta supervisione del Governo centrale, si può fare una distinzione tra quelle che sono effettivamente incaricate dal Governo cinese di garantire la fornitura di materie prime e quelle che sono alla ricerca di mercato, come le grandi imprese di costruzione che non hanno altro obiettivo se non quello di realizzare profitti. Ci sono poi le imprese statali provinciali, la cui lealtà principale è verso i governi locali, che rafforzano il loro potere grazie ai profitti che realizzano.
Ci sono anche grandi aziende private o presunte tali, come Huawei che, all’inizio degli anni 2000, si è opposta alla volontà del Governo cinese di imporre standard telefonici puramente cinesi per la vendita di apparecchiature telefoniche all’estero. Certamente, nella situazione attuale, segnata dalla guerra economica sino-americana e dall’autoritarismo intransigente del Partito Comunista Cinese, non è certo che aziende come Huawei possano ancora godere di una così grande autonomia decisionale, come dimostrano i recenti insuccessi di Jack Ma (ex CEO e fondatore di Alibaba). Le PMI private sono potenzialmente elettroni liberi. Pensiamo all’azienda Haite, che aveva un progetto per la creazione di una zona economica speciale a Tangeri, ma che, nonostante il sostegno iniziale della Banque marocaine du commerce extérieur (futura Banca d’Africa), non ha ricevuto l’appoggio di Pechino.
Le autorità cinesi stimano il numero di aziende cinesi attive in Africa tra le tre e le quattromila. La differenza con il numero indicato dal rapporto McKinsey del 2017 (10.000 aziende cinesi in Africa) deriva da una confusione. Le aziende citate sono aziende cinesi (o loro filiali) di diritto cinese – e quindi costituite in Cina – mentre il rapporto McKinsey include anche piccole aziende private di diritto locale africano (e quindi legalmente e statisticamente non cinesi) gestite da cittadini cinesi la cui fedeltà a Pechino può essere inversamente proporzionale all’autonomia di cui godono.
Le relazioni economiche Cina-Africa in rassegna
L’analisi dei dati statistici cinesi, così come quelli delle istituzioni internazionali, mostra chiaramente che le aziende cinesi in Africa non agiscono specificamente come investitori, contrariamente al cliché spesso ripetuto. Agiscono come fornitori di servizi, clienti e fornitori di beni. L’importo di queste attività commerciali (servizi e beni) è in media 80 volte superiore all’importo effettivamente investito in Africa. Ad esempio, nel 2019, l’importo degli investimenti diretti cinesi in Africa è stato di 2,7 miliardi di dollari, che corrisponde all’incirca al valore della partecipazione di Dong Feng nella casa automobilistica francese Peugeot (PSA): vale a dire, lo stesso importo per, da un lato, una singola azienda cinese che investe in una singola azienda straniera e, dall’altro, un numero significativo di aziende cinesi che investono nei 54 Paesi africani.
FIGURA 1: Contratti di investimento e costruzione in Africa. Calcoli dell’autore basati sull’Annuario Statistico Cinese www.stats.gov.cn/tjsj/ndsj/ e sui comunicati statistici del MOFCOM fec.mofcom.gov.cn/article/tjsj/tjgb/.
Queste cifre rivelano la classica confusione tra investimento, finanziamento e fornitura di servizi. Gli organismi internazionali (FMI, OCSE) hanno fornito una chiara definizione di ciò che deve essere considerato un investimento. Si tratta di una definizione a cui la Cina aderisce e che viene ricordata ogni anno nel comunicato statistico del MOFCOM sugli investimenti diretti cinesi all’estero. Per rendere più evidente la confusione e attribuire agli investimenti il loro ruolo corretto, è utile confrontare, nella Figura 1, l’importo degli investimenti con i servizi forniti (il cui indicatore è il fatturato dei contratti di costruzione all’estero completati nello stesso anno).
Secondo la Figura 1, negli ultimi anni, il fatturato delle imprese edili cinesi è stato più di dieci o venti volte l’importo investito dalla Cina in Africa. Questo rivela un fatto ineludibile: gli investimenti cinesi in Africa sono una spesa per la Cina, non un’entrata per il Paese africano ospitante. Al contrario, il pagamento dei servizi è una spesa (oltre che un investimento) per il Paese africano cliente, ma un’entrata per la Cina. Date queste differenze, queste due attività illustrano ciascuna la presenza della Cina in Africa a modo proprio. Dimostrano chiaramente che la Cina è un fornitore di servizi piuttosto che un investitore e che l’Africa è un cliente piuttosto che un partner.
La conseguenza dei bassi investimenti cinesi in Africa è che la Cina è coinvolta solo marginalmente nella sua industrializzazione. A livello globale, gli investimenti industriali della Cina all’estero rappresentano solo il 19,6% dei suoi investimenti esteri e sono per lo più nei Paesi occidentali, alla ricerca di tecnologia e profitti. In Africa, gli investimenti industriali cinesi sono effettuati in attività ad alta intensità di lavoro, quindi difficilmente ad alta intensità di capitale, e di conseguenza non si industrializzano molto e comportano trasferimenti di tecnologia molto limitati. Il 14° Piano Quinquennale (pubblicato il 13 marzo 2021), facendo riferimento alle preoccupazioni per la prevista deindustrializzazione in Cina, invita quindi gli attori economici a consolidare il settore industriale. Si tratta di una riaffermazione di un principio affermato nel 2015: “lasciare che il settore manifatturiero rafforzi la nazione” (zhizao qiang guo). Questo orientamento è, inoltre, coerente con un impegno dichiarato per la rapida robotizzazione delle attività ad alta intensità di lavoro, che porta in particolare all’interruzione di qualsiasi delocalizzazione di reimportatori. La cooperazione con la Germania sulla quarta rivoluzione industriale può anche essere spiegata da questa preoccupazione per una “rivoluzione robotica” (jiqiren geming) resa prioritaria da Xi Jinping nel 2014, perché non solo aumenterà la produttività dei lavoratori che altrimenti sarebbero stati resi non competitivi da salari molto alti, ma permetterà anche di ignorare la sfida demografica di una popolazione che sta invecchiando troppo rapidamente, perché non ha dato vita a una generazione più giovane numericamente sufficiente per giustificare un’economia guidata dai consumi. Quindi, non sorprende che ora si parli poco dell’esportazione della capacità di produzione industriale e della conseguente creazione di 85 milioni di posti di lavoro al di fuori della Cina – il che richiederebbe, secondo i dati del MOFCOM del 2018, l’internazionalizzazione di 1,3 milioni di aziende cinesi, dato l’esiguo numero di posti di lavoro che creano. La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti rafforza anche una rifocalizzazione annunciata nel luglio 2020 che va nella stessa direzione: questa strategia di cosiddetta “doppia circolazione” (shuang xunhuan) non può che aumentare l’autonomia della Cina, dando così l’impressione di un confinamento economico, o addirittura di un ripiegamento su se stessa in un contesto politico relativamente sfavorevole per lei.
Quindi, tanto rumore per gli investimenti. Le aziende cinesi investono solo marginalmente in Africa. Invece, commerciano e costruiscono infrastrutture per conto dei governi africani, che investono in infrastrutture con finanziamenti cinesi (vedere Figura 2). Ciò solleva interrogativi sullo status dei Paesi africani nella strategia delle Nuove Vie della Seta.
FIGURA 2: Relazioni economiche Cina-Africa. Calcoli dell’autore basati sull’Annuario Statistico Cinese www.stats.gov.cn/tjsj/ndsj/, sui comunicati statistici del MOFCOM fec.mofcom.gov.cn/article/tjsj/tjgb/ e sul database UNCTAD online unctadstat.unctad.org.
Sia la Via della Seta interna che quella marittima sono un’eredità delle rotte commerciali tradizionali tra Asia ed Europa. La via marittima nella sua forma attuale è nata nel XIX secolo. È il successore della via della porcellana utilizzata dai mercanti arabi e indiani. Fu poi estesa al Mediterraneo, e poi oltre, al Nord Europa, grazie all’apertura del Canale di Suez nel 1869. Uno dei primi promotori della moderna rotta marittima è il precursore dell’attuale CMA-CGM, che è stato dietro la creazione di Gibuti (1888) e della ferrovia Gibuti-Addis Abeba (1897). Dalla crisi asiatica del 1998, e soprattutto dai primi anni 2000, i funzionari cinesi hanno cercato, con un successo molto limitato, di riformare il modello economico ereditato da Deng Xiaoping. Hanno cercato di trasformare il motore della loro economia, ossia di sostituire la crescita guidata dal mercato interno con la crescita guidata dai mercati esterni. Da qui l’appello di Xi Jinping a Davos nel 2017 per una globalizzazione liberale, che può essere interpretato quasi come una richiesta di soccorso. La strategia delle Nuove Vie della Seta è quindi un’iniziativa per penetrare meglio i mercati europei (principalmente l’Unione Europea). Infatti, questi sono il primo sbocco per i prodotti cinesi, prima dei Paesi del Sud-Est asiatico e degli Stati Uniti.
Il commercio di merci containerizzate tra la Cina e l’Europa rappresenta il 15% del commercio cinese anno su anno (di cui il 94% via mare), mentre il commercio con l’Africa rappresenta solo il 4%. In effetti, tutte le modalità di trasporto combinate (mare, aria e terra), l’Africa rappresenta solo il 3% del commercio mondiale e il 3% del commercio cinese di beni. Quindi, da un punto di vista microeconomico (quello delle aziende cinesi), questo potrebbe offrire alcuni mercati potenzialmente grandi. Tuttavia, da un punto di vista macroeconomico (quello della nazione cinese), questo è ben lontano dal caso. Anche in termini di accesso alle materie prime, l’Africa è molto dipendente dagli acquisti cinesi. La Cina, d’altra parte, ha costruito un’ampia gamma di fornitori alternativi per queste stesse materie prime. Quindi, non sarà mai veramente dipendente dall’Africa.
La Tabella 1 lo illustra guardando alle esportazioni di minerali, metalli e combustibili. Solo il Sudafrica e l’Angola potrebbero pretendere di svolgere un ruolo significativo, data la dipendenza molto relativa della Cina. In effetti, i recenti sviluppi nelle relazioni Australia-Cina dimostrano che la Cina non ha paura di sfidare la sua presunta dipendenza dall’Australia per le forniture di ferro – che in questo caso potrebbe andare a vantaggio (almeno nel breve termine) di alcuni Paesi africani come la Guinea. Anche in questo caso, il 14° Piano quinquennale ribadisce chiaramente la volontà di creare catene industriali che rispettino il principio “China first” (yi wo wei zhu). Nel contesto di una divisione internazionale del lavoro ineguale, questo principio non fa che rafforzare il ruolo dell’Africa come fornitore di materie prime accanto ad altri “Paesi risorsa” (ziyuan guo).
TABELLA 1: Esportazioni di materie prime africane in Cina (2021). Calcoli dell’autore basati sul database UNCTAD online unctadstat.unctad.org
La lezione che possiamo trarre da questo è che esiste una sostanziale asimmetria nella relazione tra l’Africa come continente e la Cina come nazione. Mentre la Cina è economicamente importante per l’Africa, l’Africa non è importante per la Cina. Al contrario, i Paesi africani sono politicamente importanti per la Cina.
Importanza politica dell’Africa per la Cina
Per comprendere l’importanza politica dell’Africa per la Cina, è necessario approfondire la storia della fine del XX secolo. Nel 1989, dopo i massacri di Piazza Tienanmen, i Paesi occidentali imposero sanzioni alla Cina. Questo fu un elettroshock per i leader cinesi dell’epoca, come dimostra la Breve storia del Partito Comunista Cinese in una versione rivista pubblicata nel 2021 per celebrare il centenario del PCC. Da quel momento in poi, è stata gradualmente stabilita una doppia narrativa: un messaggio economico abbastanza liberale, illustrato, ad esempio, dal discorso di Xi Jinping a Davos (vedi sopra); e un messaggio politico veementemente anti-occidentale che si è consolidato nel tempo ed è sbocciato negli ultimi anni, come dimostrato più recentemente dalla retorica di alcuni diplomatici cinesi ora descritti come “lupi di guerra”. Politicamente, questo si è tradotto, a partire dai primi anni ’90, in una strumentalizzazione del vecchio tema dell’umiliazione nazionale e in una revisione dei libri di testo di storia, in una reinvenzione del confucianesimo, in una riattivazione del terzomondismo e in un approfondimento dei legami con i Paesi in via di sviluppo, a partire da quelli africani. L’Africa ha 54 Paesi con un voto ciascuno nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (ad eccezione dell’Eswatini, 53 Paesi attualmente riconoscono Pechino) – cioè quasi un terzo dei voti che possono far passare le decisioni. Questo ha portato a una riscrittura della storia, come dimostra la pubblicazione nel 1999 di un libro che ripercorre cinquant’anni di diplomazia cinese, in cui l’Africa viene ritratta come un eroe grazie al quale la Repubblica Popolare Cinese è riuscita a sostituire la Repubblica di Cina (Taiwan) nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In realtà, come dimostrano gli archivi delle Nazioni Unite, il sostegno dei Paesi africani è arrivato in ritardo ed è stato espresso solo quando l’estromissione di Taiwan è diventata inevitabile.
La Cina ha diretto contemporaneamente quattro agenzie delle Nazioni Unite: l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) [2019-2023], l’Organizzazione Internazionale per l’Aviazione Civile (ICAO) [2015-2021], l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale (UNIDO) [2013-2021] e l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (ITU) [2015-2022]. È anche l’unico Paese che non ha mai ricoperto così tante direzioni contemporaneamente, il che è tanto più importante in quanto queste quattro agenzie sono altamente simboliche. Le direzioni FAO e UNIDO sottolineano il coinvolgimento della Cina nello sviluppo, nell’industrializzazione e negli aiuti ai Paesi poveri. La supervisione dell’ICAO e dell’ITU mostrano inoltre la Cina come un Paese tecnicamente innovativo in aree sensibili, che si è trasformato con successo da Paese arretrato a Paese tecnologicamente avanzato. Se la presenza della Cina alla guida dell’ITU ha senso nella corsa non più al 5G, ma al 6G, che Huawei intende commercializzare già nel 2030, la sua presenza alla guida dell’ICAO è stata ancora più significativa con il lancio di una via aerea della seta, dopo le battute d’arresto del Boeing 737 Max e alla vigilia della certificazione del Comac C919. La Rotta Aerea della Seta è un progetto avviato dal conglomerato AVIC (Aviation Industry Corporation of China) per promuovere l’esportazione di attrezzature aeronautiche, infrastrutture e servizi cinesi verso i Paesi lungo le Nuove Vie della Seta. Si tratta di un progetto industriale che necessita fortemente del sostegno dello Stato cinese per ottenere i vari certificati che stabiliscono l’aeronavigabilità del materiale e delle attrezzature esportate e, a tal fine, è incluso nel 14° Piano quinquennale. Tra le attrezzature esportabili c’è il Comac C919, che è destinato agli stessi mercati dell’Airbus A320 e del Boeing 737 Max. In altre parole, sostenendo economicamente e finanziariamente i Paesi africani, la Cina sta costruendo una clientela di Paesi dipendenti che le consentono di costruire la sua immagine e di esercitare un potere politico definito: la strumentalizzazione dell’Africa contribuisce direttamente alla rinascita della Cina potente che i leader cinesi desiderano tanto vedere. Inavvertitamente cinico (o almeno così si suppone), Yao Guimei (direttore del Centro di Studi Sudafricani presso l’Istituto Cina-Africa dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali) riassume il rapporto con l’Africa come “risorse, mercati e voti”.
Questo cinismo strumentale è stato stigmatizzato nel corso di un colloquio tenutosi il 27 maggio 2022 sotto gli auspici della rivista Culture e dell’Associazione Eurasian Society for System Science Research. Per sintetizzare il punto di vista dei relatori, direi che hanno insistito sul fatto che la Cina è economicamente preziosa per l’Africa, mentre l’importanza economica dell’Africa per la Cina è estremamente modesta. Tuttavia, l’Africa è politicamente rilevante per la Cina. Hanno convenuto che la cooperazione economica cinese in Africa è la “pietra di zavorra” – in altre parole, ciò che stabilizza le relazioni sino-africane – e che l’Africa non dovrebbe più essere strumentalizzata per scopi politici, ma dovrebbe diventare il fulcro di una nuova strategia economica internazionale cinese per contrastare meglio l’ordine internazionale sostenuto da “l’Occidente guidato dagli Stati Uniti”. Tuttavia, è probabile che questo interrogativo venga attuato solo in misura molto limitata, in quanto il Libro Bianco “La Cina e l’Africa nella nuova era” (dicembre 2021) e il 15° Piano quinquennale (2021-2025) assegnano all’Africa un posto specifico nella divisione internazionale del lavoro, condizionato dalla volontà della Cina di creare catene industriali che rispettino il principio “China First”. Nel contesto di una divisione internazionale del lavoro così diseguale, questo principio non fa che rafforzare il ruolo dei Paesi africani come fornitori di materie prime, o come “Paesi risorsa”, come vengono definiti nel 15° Piano quinquennale.
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